Il Festival di Sanremo Parole e suoni raccontano la nazione
Serena Facci e Paolo Soddu con Matteo Piloni - Carocci




Il 30 gennaio 1964 Gigliola Cinquetti, accollata in un abitino acqua e sapone
e lanciando occhiate maliziosamente candide, debuttò a Sanremo: Non ho l’età,
ideata da professionisti di lungo corso come Nisa, Panzeri e Colonnello, non era
solo l’efficace confezione melodica di un testo esile con un buon attacco.
Era il frammento di un più complessivo discorso sulla nazione e in questo caso
una delle risposte alla sfida dell’autodeterminazione femminile e della libertà sessuale. Quella serata non è che un tassello di una foto di famiglia lunga 60 anni nella quale riconosciamo volti e voci diventati monumenti nazionali incontestati (da Nilla Pizzi
a Domenico Modugno, da Mina a Vasco Rossi) o discussi (da Claudio Villa a Orietta Berti fino a Toto Cutugno), alcuni dimenticati, altri ancora freschissimi. La tradizione
era iniziata nel 1951: l’Italia non riusciva a rielaborare le ferite del recente passato
e preferiva alludere a se stessa ricomponendo come poteva, con leggerezza quasi frivola, reminiscenze da melodramma o realismo da chansonnier, i pezzi di una nazione
che aspirava alla democrazia e alla modernità. Il Festival è arrivato indenne,
sorvolando mille traversie, fino a questi giorni: non è solo audience, kermesse,
dietrologie e pettegolezzi, noia o passione; è anche uno dei momenti in cui
una fibrillante democrazia occidentale si racconta e si interroga.


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